La scrittura joyciana è mirata alla compensazione per la mancanza del Nome del Padre, è sicuramente un tentativo di gloria, di Ego sulla terra, di riconoscimento e di carne che tocca carne.
Di realtà nevrotica e abissalmente sfolgorante.
L'irlandese vuole sostituire il terzo piede dello sgabello lacaniano, il vuoto manchevole anche di se stesso.
Come Petrarca, come il suo anelito d'affermazione e di esistenza saputa dall'Altro.
"Eccomi: sono qui, e sto facendo grandi cose."
Van Gogh, invece, a differenza di Joyce e del laureato è distaccato dal Reale concreto, e si avvicina, a costo di abbrustolirsi, alla Cosa, a quel noumeno kantiano inespugnabile, alla volontà, alla forza cieca, alla vita del cane randagio, alla Luce e all'essenza più pura del giallo.
Il giallo, la sua morte. Una terribile paura di "stare dentro".
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